22 Febbraio 2013
Il valore di ciò che scrivi, nel feudalesimo digitale
In questi due giorni c’è stato uno scambio di opinioni tra Riccardo Esposito e Riccardo Scandellari su un’offerta di lavoro – piuttosto rappresentativa – che chiedeva di scrivere un pezzo di 300 parole per 6 euro.
Secondo Esposito “c’è un meccanismo da smantellare”: prezzi sempre più bassi vanno a discapito della qualità del lavoro. Sia i web writer che accettano tariffe così basse sia chi le propone sono responsabili del deterioramento complessivo del mercato.
Secondo Scandellari, tuttavia, chi cerca articoli a sei euro a pezzo non ha bisogno di contenuti di qualità, bensì semplicemente dei riempitivi per posizionarsi sui motori di ricerca, e quindi non ha bisogno d’altro che rimescolamenti e copia-incolla da altre fonti. Una mera necessità di che affligge non solo le aziende, ma anche molti i giornali locali.
A margine Scandellari cita l’Huffington post, che non paga affatto i contenuti prodotti dai blogger, vicenda che ha destato grande scalpore per le dichiarazioni dell’Annunziata al varo delle versione italiana della testata, sebbene molti dimenticassero che tale politica è ampiamente praticata anche da noi da tutti i giornali online.
Pur non potendo sovrapporre del tutto la ‘ciccia-da-posizionamento’ e la generazione spontanea di contenuto da parte degli utenti, la lettura di Scandellari apre uno scorcio più ampio sulle pur sensate rimostranze di Esposito (anche se, c’è da dire, i rimescolamenti e i copia incolla sono sempre più penalizzati dallo stesso Google, perché deteriorano il servizio di ricerca).
Non possiamo prescindere infatti dal contesto del web 2.0, dove i contenuti non sono una risorsa scarsa e la cui creazione non è alla portata di pochi, ma di pressoché chiunque. Proprio per questo, trovo necessaria un una breve digressione.
Il web 2.0 e il “feudalesimo digitale”
La nascita del web 2.0 e il suo cambio di paradigma editoriale sono ben sintetizzati da Geert Lovink nel primo capitolo del suo recente Ossessioni collettive. All’inizio degli anni 2000, con il collasso della new economy basata sull’e-commerce, nacque l’idea di trarre profitti dai contenuti generati spontaneamente grazie alle nascenti piattaforme di blogging e alla “società della ricerca”. In altre parole, qualcuno si accorse che l’enorme giacimento di dati opensource potevano essere sfruttati in modo “parassitario” per generare traffico e per aggregare profili da rivendere agli inserzionisti. Nel frattempo, arrivarono i social network, come quasi naturale evoluzione in tal senso.
E veniamo a oggi. Sotto un certo aspetto, per i prosumer (cioè gli utenti che al tempo stesso creano contenuti), la condizione non è lusinghiera. Giovanni Scrofani ha definito questa situazione come “feudalesimo digitale”: milioni di utenti ‘contadini’ arano i campi del web per conto di pochi, potentissimi feudatari (Google, Facebook, Twitter, Amazon), che al tempo stesso svolgono il ruolo di metaeditori (ne ho parlato anche nell’articolo precedente), decretando la visibilità o l’invisibilità dei contenuti in rete. I feudatari, in quanto tali, non spartiscono però i propri profitti con i produttori dei contenuti, semplicemente perché questi contenuti non sono il prodotto: il vero prodotto sono gli utenti stessi, che permettono con i propri contenuti di essere meglio profilati e bersagliati da messaggi promozionali.
Cambiare prospettiva
Non ho voluto fare questa parentesi storica e ‘macro’ per scoraggiare i web writer o i pubblicisti già depressi per la bassa qualità del lavoro e per i magrissimi, se non nulli, ritorni economici che ne traggono. L’ho fatto per invitare a cambiare prospettiva.
Anche sotto il profilo ‘micro’, delle aziende e dei giornali che cercano di farsi largo posizionandosi attraverso le pieghe dei grandi attori, il contenuto in sé non può essere più considerato un prodotto, almeno in termini di parole o di minutaggio. Non lo può essere nemmeno il saper scrivere bene in astratto o il saper scrivere per i motori di ricerca: esistono già software in grado di produrre autonomamente contenuti altrettanto ‘perfetti’ e noiosi quanto la carne-da-Google prodotta a ritmi cinesi, la quale probabilmente serve solo a essere letta da altrettanti robot.
Quella che è invece una risorsa scarsa è la capacità di gestire il lato soggettivo della comunicazione, che può essere imitato su larga scala (non a caso si comprano, follower, commenti, ‘mi piace’) per innescare un effetto-traino, ma non prodotto in termini reali.
Proprio dalla sovrabbondanza di contenuti opensource nascono nuove esigenze da soddisfare, perché paradossalmente diventa difficile farsi un’idea completa su un argomento. Non dico per i comuni prosumer, ai quali in fondo val bene la prima notizia che trovano, ma per professionisti e aziende che hanno bisogno di strutturare informazioni ad hoc da quelli che in fondo, in rete, sono dati grezzi.
A questo proposito invito a guardare la bella intervista a Giuseppe Granieri su Intervistato.com circa le possibilSi evoluzioni del mercato editoriale: “Il contenuto di qualità non eccellente” dice Granieri “diventa una pura commodity: nel futuro, dal punto di vista di chi lavora sui contenuti, si premierà di più il lavoro autoriale, una curation ben fatta, la capacità di raccontare un mondo mettendo insieme fonti diverse. Si può avere così una comprensione più alta, e risparmiare tempo. E il tempo del lettore ha un valore economico.”
Oltre alla cura dei contenuti (che in realtà coinvolge tutti i contenuti di valore, in quanto ben documentati), un’altra risorsa scarsa è la capacità di rappresentare l’identità attraverso i contenuti stessi. Con ciò intendo sia la capacità di sintetizzare e rappresentare al meglio una visione, sia la gestione delle relazioni, che proprio per la notevole popolarità dei social network vengono gestite con un approccio flat, magari mettendo un bel cagnolino in braccio a tutti. E sotto questo argomento – l’identità – rientra anche il discorso qualitativo, sui cui Google stesso sta puntando gli occhi, come ho evidenziato nei due articoli sul ‘Google leak’ (parte 1 e parte 2).
In conclusione
Saper definire la credibilità di un brand o di un professionista, saper dare il taglio giusto non solo per i motori di ricerca o per un segmento di un database, ma per un pubblico in carne e ossa, non è facile e richiede competenze specifiche, a volte nuove, che vanno aldilà del mero scrivere (o produrre altro tipo di contenuto). Il che, come attività in sé, sarà destinato a essere svalutato ben sotto i 6 euro.
Finché sei un pezzo intercambiabile, dovrai accettare la concorrenza ‘cinese’. Questa è una regola che non nasce con il web 2.0 e che richiede uno sforzo costante di adattamento. Così come il lavoro scriba perde valore con l’alfabetizzazione di massa, occorre trovare il valore aggiunto nell’epoca in cui tutti pubblicano contenuti, il tratto distintivo. Andare oltre, o meglio, dal contenitore al significato, che è sempre più fluido e riconfigurabile, è la vera frontiera di questo mestiere.
http://www.francescovignotto.net/il-valore-di-cio-che-scrivi-nel-feudalesimo-digitale/